Il favoritismo privato non costituisce reato di abuso d’ufficio (Cass. pen. n. 14214 del 15 aprile 2021)

I componenti di una commissione di selezione pubblica per addetti stampa di una Università Ospedaliera erano tratti a giudizio con l’accusa di abuso d’ufficio, per aver asseritamente “supervalutato” un candidato a danno di un altro, violando l’art. 97 Cost che sancisce il principio di imparzialità della pubblica amministrazione.

La vicenda approdava in Corte di cassazione, la quale dichiarava inammissibile il ricorso della parte civile, confermando la pronuncia di assoluzione in appello degli imputati perché “il fatto non sussiste”.

La motivazione della sentenza in commento offre tuttavia un interessante spunto di riflessione in ordine al reato di abuso d’ufficio, con particolare riferimento alla recentissima novella con la quale pare essersi ampiamente ridotto l’ambito di applicazione della fattispecie criminale in parola.


Il reato di abuso d’ufficio è previsto e punito dall’art. 323 del codice penale come fattispecie sussidiaria, la quale può realizzarsi quando “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto”.

L’abuso d’ufficio è punito con la reclusione da uno a quattro anni, ma la pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno abbiano un carattere di rilevante gravità.

Si tratta di reato proprio, doloso e intenzionale, che può essere commesso solo da chi rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio in occasione dello svolgimento delle sue funzioni o del servizio, caratterizzato da una “doppia ingiustizia” che consiste nella “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità” a cui deve aggiungersi l’evento del “ingiusto vantaggio patrimoniale o danno”.

Il reato in esame è ricompreso tra i delitti contro la Pubblica Amministrazione, e ha natura pluri-offensiva: la criminalizzazione dei fatti che lo realizzano tutela da una parte l’interesse pubblico al buon andamento, all’imparzialità e alla trasparenza della attività della P.A., e dall’altra il concorrente interesse del privato a non essere turbato nei suoi diritti costituzionalmente garantiti e a non essere danneggiato da comportamenti illegittimi e/o ingiusti del pubblico ufficiale. (cfr. Cass. pen. n. 1231/2010, inter alia conformi).


La disposizione è stata recentemente oggetto di un sostanziale rimaneggiamento che ha de facto eliso dall’alveo del penalmente rilevante un gran numero di fattispecie concrete.

Invero, prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 76 del 16 luglio 2020, convertito con L. n. 120 del 11 settembre 2020, il testo dell’articolo 323 c.p. recitava: “in violazione di norme di legge o regolamento”, mentre con la novella tali parole sono state sostituite con “in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

La modifica ha pertanto escluso dalla rilevanza penale tutti quegli atti amministrativi connotati da un “margine di discrezionalità” tecnica, intendendosi con essa la scelta che la Pubblica Amministrazione compie attraverso un giudizio valutativo condotto alla stregua di regole tecniche.

Prima dell’intervento della novella, la giurisprudenza maggioritaria riteneva che il requisito della violazione di legge potesse già essere integrato dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della p.a. (cfr. Cass. pen. n. 46096/2015, inter alia, benché vi si rinvengano anche difformi, come Cass. pen. n. 13097/2009) e quindi nel generale divieto di uso del potere da parte del pubblico ufficiale al fine di realizzare deliberati favoritismi, che discende dalla previsione di cui al disposto dell’art. 97 Cost..

Con la modifica citata, invece, pare che il legislatore abbia voluto imporre la necessità di individuare un’espressa previsione di legge (o di atto avente forza di legge) che imponga al pubblico ufficiale un preciso e determinato comportamento, senza spazio per alcuna discrezionalità amministrativa.

Sicché la Corte di cassazione, nella sentenza in commento, prendendo atto della modifica legislativa anzidetta, ha ritenuto che “il divieto di favoritismi privati, per quanto deducibile in via indiretta dal principio di imparzialità, non può considerarsi oggetto di un’espressa previsione da parte della norma costituzionale di cui all’articolo 97”, e ha così confermato l’assoluzione degli gli imputati dal reato di abuso d’ufficio.

La sentenza riafferma un principio non totalmente nuovo nel panorama giurisprudenziale, ma che era finora rimasto per lo più relegato a posizioni minoritarie.

Tuttavia, alla luce del recente intervento legislativo - interpretato dai più come una sorta di abrogatio criminis parziale implicita - l’orientamento maggiormente garantista pare capace di trovare nuovo vigore.


Matteo Antonicchio

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova con tesi in diritto penale dal titolo “Osservazioni critiche sull’orientamento giurisprudenziale a favore della rilevanza penale dell’elusione fiscale”, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Venezia. E' iscritto alle liste dei difensori d'ufficio

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