Gelosia e diritto penale: circostanza aggravante o attenuante del reato?

Il fattore emotivo ha subito, nel corso degli anni, una significativa evoluzione in ordine alla sua rilevanza nell’ambito del diritto penale.

Invero, sebbene il vecchio codice Zanardelli escludesse l’imputabilità di chiunque fosse stato determinato ad un’azione per la quale non poteva resistere, l’attuale Codice Rocco esclude categoricamente - all’art. 90 c.p. - qualsivoglia rilevanza agli stati emotivi e passionali.

Nonostante la lettera dell’art. 90 c.p., la giurisprudenza si è interrogata sulla rilevanza della gelosia nella commissione di un fatto di reato quale elemento accessorio del reato stesso e, più precisamente, ha cercato di rispondere all’interrogativo se tale condizione soggettiva vada qualificata come una circostanza aggravante - ascrivibile ai motivi abietti o futili di cui all’art. 61, n. 1, c.p. - ovvero come una circostanza attenuante poiché in grado di inquinare i processi cognitivi e decisionali del soggetto agente.

Ne consegue che lo stato di alterazione emotiva, pur non incidendo sull’imputabilità del soggetto (a meno che non si traduca nella manifestazione di una patologia psichiatrica o di disturbi della personalità), viene in rilievo nell’ambito della commisurazione della pena.

Sono evidenti le notevoli ripercussioni derivanti dall’inquadramento della gelosia quale circostanza che aggrava la pena ovvero che la attenua, in primo luogo in ordine ai criteri di imputazione. Come noto, le circostanze aggravanti devono essere conosciute dal reo ovvero ritenute esistenti per errore determinato da colpa; al contrario, le circostanze attenuanti vengono imputate oggettivamente.

In giurisprudenza si sono registrati orientamenti contrapposti e il contrasto si è accentuato ulteriormente a seguito della nota sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bologna del 14 dicembre 2018 (imputato Castaldo), nella quale i giudici di seconde cure sono stati chiamati a valutare l’omicidio compiuto ai danni di una donna, dopo un mese di frequentazione, che aveva manifestato la volontà di interrompere il rapporto a causa della fragilità, insicurezza e gelosia dell’imputato.

Nella sentenza in esame, più precisamente, i giudici hanno ritenuto sussistente l’aggravante dei motivi abietti e futili perché la gelosia “fu espressione di un intento meramente punitivo nei confronti di una donna che si mostrava poco sensibile per le sue fragilità e che - con tale atteggiamento - gli lasciava immaginare di potersi stancare della relazione e di decidere di lasciarlo” ma, al contrario del giudice di primo grado, hanno concesso le attenuanti generiche, osservando che il sentimento di gelosia e turbamento conseguente alla fine della relazione affettiva, pur essendo “immotivato e inidoneo a inificiare la capacità di autodeterminazione dell’imputato, tuttavia esso determinò in lui, a causa delle sue poco felici esperienze di vita, quella che efficacemente il perito descrisse comeuna soverchiante tempesta emotiva e passionale”, che in effetti si manifestò subito dopo anche col teatrale tentativo di suicidio: si tratta di una condizione che appare idonea a influire sulla misura della responsabilità penale”.

La suddetta sentenza è stata poi annullata dalla Corte di Cassazione, la quale con sentenza n. 2692 dell’8 novembre 2019 ha ritenuto la motivazione illogica e contraddittoria poiché i giudici di merito hanno attribuito due significati inconciliabili e contraddittori alla gelosia: da un lato, espressione di un intento puramente punitivo quando ha motivato l’applicazione dell’aggravante dei motivi abietti e futili e, dall’altro, rivelatrice di una soverchiante tempesta emotiva idonea ad attenuare la pena.

Nella sentenza in esame, i giudici della Suprema Corte ripercorrono i diversi orientamenti giurisprudenziali evidenziando che la gelosia può venire in rilievo per tre ordini di ragioni:

1) può costituire uno stato passionale idoneo a diminuire o ad escludere la capacità di intendere e di volere dell’autore del fatto laddove integri uno stato delirante che, nell’incidere sul processo di determinazione o di inibizione, travolge l’agente in una condotta abnorme e automatica;

2) la gelosia di per sé costituisce una stato passionale inidoneo a escludere o diminuire la capacità di intendere e di volere del soggetto agente ma può giustificare una minore gravità del reato qualora si registri un’incidenza significativa dell’accertato stato passionale nella consumazione della fattispecie delittuosa ovvero venga dimostrato che la gelosia abbia esercitato nel processo motivazionale un’influenza significativa, condizionando la capacità dell’imputato di reagire e di controllare i freni inibitori;

3) infine la gelosia può giustificare un aggravamento della pena prevista per il reato contestato, laddove integri i motivi futili o abietti di cui all’art. 61, n. 1, c.p. quando la condotta è caratterizzata da “abnormità dello stimolo possessivo” nei confronti della vittima, o di un terzo legato alla stessa, ma anche quando la gelosia è espressione di uno “spirito punitivo” dettato da “reazioni emotive aberranti” conseguenti a comportamenti della vittima percepiti come “atti di insubordinazione”.

Recentemente, la giurisprudenza di merito (Corte d’Assise di Brescia, Sezione I, 21 dicembre 2020) ha escluso la punibilità dell’imputato per l’omicidio della moglie, ritenendo che lo stesso, al momento del fatto, non fosse imputabile per vizio totale di mente determinato da un delirio di gelosia.

La Corte d’Assise di Brescia distingue, più precisamente, la gelosia delirante (sintomo di una patologia psichiatrica) dalla gelosia intesa sic et simpliciter quale stato d’animo passionale, tale da determinare impulsi violenti improvvisi e incontrollati all’esito di acuti stati di tensione; i giudici di seconde cure nel difficile tentativo di tratteggiare con sufficiente precisione la distinzione tra le due forme di gelosia evidenziano che: “nella impulsività patologica colui che agisce comprende di fare una cosa sbagliata, ma non riesce a controllarsi; nel caso del delirio, la situazione è capovolta poiché ad essere colpita primariamente dalla visione distorta della realtà è invece la capacità di intendere; quella di volere ne risulta viziata di conseguenza. Paragonare le due condizioni è un errore enorme perché si crea un parallelismo tra una persona che ha un disturbo di natura psicotica con una persona che fa una scelta di agire, che può essere più o meno impulsiva, più o meno motivata, più o meno razionale, però può scegliere; l’imputato non poteva scegliere”.

Nelle motivazioni delle sentenza dei giudici di secondo grado si legge che la vicenda “presenta profili inquietanti proprio perché l’impulso omicida si è infiltrato nella mente dell’imputato in modo silente, ma con insistenza ossessiva, fino a deflagrare il mattino del fatto in una “spinta irrefrenabile”, ricalcando lo schema tipico della sindrome delirante, ove il disturbo non interferisce di norma con la quotidianità”.

Ciò che emerge dall’analisi delle sentenze in commento è che non sussiste un concetto univoco di “gelosia”, oscillando quest’ultima tra l’escludere l’imputabilità del soggetto agente ovvero configurare un disvalore estremo - laddove integra una circostanza aggravante - o, infine, giustificare una minore rimproverabilità del soggetto agente - allorquando la gelosia diviene il motivo per concedere le attenuanti generiche. Da ciò consegue indefettibilmente una maggiore discrezionalità del giudice in sede decisionale.

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