Causalità omissiva ed esposizione a sostanze tossiche

Il tema della causalità omissiva impone di indagare il nesso causale che lega indefettibilmente la mancata condotta dovuta all'evento nell'ipotesi in cui l'evento lesivo sia causa non già di una condotta posta in essere dal soggetto agente, quanto da una omissione dell'azione dovuta.

L'indagine, in particolare, si soffermerà sui criteri idonei ad ascrivere tutte quelle omissioni dalle quali derivino conseguenze penali, per poi soffermarsi sul tema degli eventi lesivi derivanti dall'esposizione a sostanze tossiche, con particolare riguardo alla vicenda Eternit.

Come noto, sono causa dell'evento tutti gli antecedenti logici senza i quali quell'evento non si sarebbe verificato.

Tuttavia, l'omissione penalmente rilevante – consistendo in un “nulla” sul piano naturalistico – è un quid essenzialmente normativo, con la conseguenza che la causalità omissiva si atteggia in modo parzialmente diverso rispetto alle ipotesi attive.

La causalità omissiva, invero, impone di stabilire se il compimento dell'azione omessa avrebbe impedito la verificazione dell'evento, con la conseguenza che cambia il giudizio controfattuale rispetto alla causalità attiva, che diventa ipotetico o prognostico, necessitando di aggiungere mentalmente l'azione omessa per comprendere se l'evento si sarebbe verificato.

Il fondamento giuridico della causalità omissiva è rinvenibile nel disposto dell'art. 40, comma II, c.p., il quale dispone che: “non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

La giurisprudenza, negli anni, ha evidenziato i rilevanti margini di incertezza che albergano nel giudizio controfattuale per selezionare le condotte omissive penalmente rilevanti.

L'orientamento tradizionale, per affermare la sussistenza del nesso eziologico, ha per lungo tempo utilizzato il criterio delle serie e apprezzabili probabilità, il quale richiede – per la sussistenza del nesso di causa – di accertare che l'azione doverosa omessa avrebbe impedito l'evento con una certa probabilità ovvero ne avrebbe aumentato il rischio.

È del tutto evidente, tuttavia, che una tale impostazione, lasciando ampi margini di discrezionalità al giudice, sia incompatibile con i principi di cui agli artt. 25, comma 2, e 27, comma 1, Cost.

Successivamente all'impostazione tradizionale, sono state pronunciante le tre sentenze Battisti del 2000, le quali hanno sancito l'identità del grado di certezza che deve sorreggere l'accertamento della causalità nei reati attivi e omissivi, ritenendo che in entrambi i casi il giudice debba utilizzare esclusivamente leggi causali contrassegnate da un grado di probabilità vicino alla certezza.

Tuttavia, un'impostazione così rigorosa rischia di lasciare impunite condotte gravemente colpose.

Il contrasto giurisprudenziale è stato, pertanto, risolto dalle Sezioni Unite nel 2002 con la nota sentenza Franzese, con la quale i giudici di legittimità hanno ribadito che non è tollerabile un diverso grado di certezza nell'accertamento delle due forme di causalità attiva e omissiva: in entrambi i casi non potrà essere emessa la sentenza di condanna se non previo accertamento del nesso causale in termini di “certezza processuale”; tuttavia, tale certezza può essere raggiunta anche utilizzando leggi causali non universali, purché pertinenti al caso concreto secondo la probabilità logica, a fronte dell'esclusione dei decorsi causali alternativi.

L'impostazione seguita dalla giurisprudenza a partire dalla sentenza Franzese è stata ulteriormente perfezionata nel 2014, con la sentenza ThyssenKrupp, laddove i giudici hanno evidenziato la differenza del giudizio controfattuale in ipotesi causalità omissiva rispetto alle ipotesi di causalità attiva: nell'omissione, infatti, il giudizio controfattuale ha carattere predittivo e non esplicativo.

Più precisamente, mentre nella causalità attiva è possibile desumere la sussistenza del nesso causale escludendo l'interferenza di decorsi alternativi, questa operazione è abbastanza inutile nella causalità omissiva; in tale ultima ipotesi, infatti, la certezza processuale potrà essere raggiunta soltanto previa formulazione di un'ipotesi sugli effetti dell'azione omessa, ipotesi che deve risultare quanto più possibile corroborata dalle circostanze del caso concreto.

Tracciati i connotati della responsabilità omissiva, è possibile procedere con il tema del rapporto tra la causalità omissiva e l'esposizione a sostanze tossiche.

Il riferimento, più precisamente, è alle ipotesi di malattia professionale e decesso del lavorare, eziologicamente connessi all'omesso rispetto di regole cautelari da parte del datore di lavoro, che gli avrebbero imposto di ridurre o evitare l'esposizione dei dipendenti a sostanze pericolose (quali, ad esempio, le fibre di amianto).

In tali ipotesi l'indagine sulla causalità impone di verificare cosa sarebbe successo se il datore avesse rispettato correttamente le norme poste a presidio della sicurezza sui luoghi di lavoro.

Anche in materia di esposizione a sostanze tossiche la giurisprudenza ha applicato il modello di accertamento causale ideato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza Franzese.

La responsabilità omissiva, facendo buon governo dei principi sopra enucleati, sarà accertata ogniqualvolta l'omissione da parte del datore del rispetto della norma cautelare rappresenti la condicio sine qua non del verificarsi dell'evento morte, secondo un giudizio di elevata probabilità logico processuale; in tal caso, sarà possibile pervenire ad un addebito di responsabilità penale a carico del datore di lavoro.

Tuttavia, in tale ipotesi l'accertamento risulta particolarmente complesso perché il giudice non può avvalersi di leggi scientifiche di copertura, anche a titolo meramente probabilistico, non essendo la scienza ancora riuscita ad individuare l'intero processo causativo della maggior parte delle patologie neoplastiche.

Inoltre, l'accertamento della sussistenza del nesso di causalità, in queste ipotesi, tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l'evento morte del lavoratore è reso ancora più difficoltoso dall'enorme lasso temporale intercorrente tra omissione e morte, circostanza che spesso comporta che nel frattempo sia cambiato il vertice aziendale.

In tale ipotesi, è stato evidenziato dalla giurisprudenza come la causalità vada riconosciuta non solo al verificarsi dell'evento morte ma anche in relazione alla natura e ai tempi dell'offesa, con la conseguenza che il rapporto causale deve ritenersi sussistente non solo nei casi in cui risulti provato che l'intervento doveroso omesso avrebbe evitato la morte del lavoratore ma altresì nei casi in cui sia provato che l'evento si sarebbe verificato in tempi significativamente più lontani, ovvero quando alla condotta colposa sia ricollegabile un'accelerazione dei tempi di latenza di una malattia provocata da altra causa.

Inoltre, alcune malattie hanno tempi di manifestazione particolarmente lenti, il che rende particolarmente difficile l'accertamento del momento esatto in cui la malattia è stata contratta.

Alla luce delle considerazioni svolte, emerge con cristallina evidenza la difficoltà di sostenere, ogni oltre ragionevole dubbio, che la condotta omissiva del datore di lavoro possa essere considerata la condicio sine qua non dell'evento morte del lavoratore, a fronte dell'incertezza riguardante l'individuazione del momento a partire dal quale la patologia è stata innescata.

Passando in rassegna la vicenda Eternit, conclusasi con la pronuncia Cass. Pen., Sez. I, 23 febbraio 2015, n. 7941, preme evidenziare che la giurisprudenza di legittimità ha in primo luogo ricondotto la vicenda nell'alveo del reato di disastro di cui all'art. 434, comma 2, c.p., in luogo di singoli eventi lesivi di malattia e di morte.

Di conseguenza, la Suprema Corte si è chiesta se l'individuazione del disastro in un fenomeno silente e diffuso (e non dirompente ed eclatante) sia compatibile con l'idea di forza distruttiva che fornisce determinatezza alla fattispecie di cui all'art. 434, comma 2, c.p.

La risposta dei giudici è stata affermativa, avendo riconosciuto che anche l'energia impiegata nell'ambito di un processo produttivo che libera sostanze tossiche e l'inarrestabile fenomeno, così innescato, di meccanica diffusione delle stesse, alla cui esposizione non è possibile resistere, rientra nell'accezione di violenza.

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