Quali indennità di fine rapporto spettano al coniuge divorziato?
Alla luce dell’art. 12 bis della l. 898 del 1 dicembre 1970, il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto titolare dell’assegno divorzile, ad una percentuale pari al 40% dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro (per gli anni di lavoro coincisi con il matrimonio), anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza di divorzio. Negli anni si è posto un contrasto giurisprudenziale in ordine allo spettro applicativo dell’art. 12 bis ai fini di determinare con certezza a quali indennità ha diritto l’ex coniuge. Il contrasto ha trovato recentemente composizione in una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ove i giudici di legittimità sono stati investiti della questione dell’assimilabilità o meno dell’indennità di incentivo all’esodo al trattamento di fine rapporto, ai fini dell’applicazione dell’art. 12 bis della l. 898/1970.
IL CASO. La vicenda portata all’attenzione dei giudici di legittimità trae origine dalla richiesta avanzata dinanzi al giudice di prime cure da una moglie divorziata - alla quale in precedenza era stato riconosciuto l’assegno divorzile - di percepire il 40% dell’indennità di fine rapporto, delle indennità equipollenti e di altre indennità e prestazioni in forma capitale erogate da Telecom Italia all’ex marito, in conseguenza della cessazione del rapporto di lavoro. Più precisamente, parte attrice argomentava di aver diritto a percepire il 40% anche dell’incentivo all’esodo erogato dal datore di lavoro all’ex coniuge.
Tuttavia, il Tribunale di Milano ha riconosciuto come spettante all’attrice soltanto una quota paritaria del trattamento di fine rapporto. L’attrice ricorreva, pertanto, in Corte d’Appello per vedersi riconosciuta anche la quota dell’incentivo all’esodo, mentre il convenuto proponeva appello incidentale per chiedere l’esclusione del diritto, accertato dal giudice di prime cure in favore dell’ex moglie, sulla pari quota del trattamento di fine rapporto, anche sulla base del fatto che il rapporto di lavoro era iniziato quando i coniugi erano già separati di fatto.
Anche il giudice di seconde cure ha ritenuto di escludere che l’incentivo all’esodo rientrasse nell’indennità di fine rapporto di cui all’art. 12 bis della l. 898 del 1980, ciò in quanto una conclusione di segno opposto rischierebbe di attribuire all’ex coniuge una quota di retribuzioni future, non accumulate durante il matrimonio, non collegate alla durata del vincolo coniugale. Per quanto concerne, invece, l’appello incidentale, ha rilevato la Corte d’Appello che, ai fini della determinazione della quota del trattamento di fine rapporto a carico dell’ex coniuge debitore dell’assegno divorzile, è necessario aver riguardo agli anni di durata effettiva del matrimonio e non della sola convivenza coniugale poiché il legislatore ha inteso offrire assistenza al coniuge separato più debole e quindi meritevole di un contributo al mantenimento anche dopo la cessazione della convivenza tra i coniugi.
Peraltro, nelle more, è intervenuta, in sede di modifica delle condizioni di divorzio, la revoca dell’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge.
La pronuncia della Corte d’Appello di Milano è stata oggetto di un ricorso per Cassazione ma la prima sezione, rilevando l’esistenza di pronunce contrastanti in ordine al tema della spettanza della quota sull’incentivo all’esodo, con ordinanza n. 12014 del 6 maggio 2023 ha rimesso la questione alle Sezioni Unite.
IL CONTRASTO GIURISPRUDENZIALE. Un primo orientamento giurisprudenziale, cristallizzato nella sentenza n. 14171 del 12 luglio 2016 della Suprema Corte, nel fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 12 bis l. 898/1970 - dunque in combinato disposto con gli artt. 2 e 29 della Costituzione - ha ritenuto la necessità di accogliere una nozione ampia di indennità di fine rapporto, tale da ricomprendere gli incentivi all’esodo, ai quali tale orientamento ha riconosciuto la natura di reddito da lavoro.
I giudici di legittimità hanno argomentato, infatti, che “in caso di divorzio, sono assoggettate alla disciplina di cui all'art. 12 bis della l. n. 898 del 1970 le somme corrisposte dal datore di lavoro come incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente (cd. incentivi all'esodo), atteso che dette somme non hanno natura liberale né eccezionale ma costituiscono reddito di lavoro dipendente, essendo predeterminate al fine di sollecitare e remunerare, mediante una vera e propria controprestazione, il consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto” (Cass. Civ., Ord., Sez. VI-1, 12 luglio 2016, n. 14171). Tale orientamento muove dalla considerazione per cui le somme corrisposte a tale titolo non avrebbero natura liberale né eccezionale in quanto predeterminate al fine di sollecitare e remunerare, mediante una vera e propria controprestazione che consiste nel consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto.
A contrariis, l’orientamento di segno opposto ritiene che l’indennità di cui è fatta menzione all’art. 12 bis riguarda esclusivamente quell’indennità che, maturando alla cessazione del rapporti di lavoro, è determinata in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore, risultandone pertanto escluso l’incentivo all’anticipato collocamento in quiescenza (Cass. Civ., Sez. I, 17 aprile 1997, n. 3294).
LA SOLUZIONE. Le Sezioni Unite della Suprema Corte, nel dirimere il contrasto giurisprudenziale, escludono preliminarmente la rilevanza della questione incidentale della revoca dell’assegno divorzile, in quanto la revoca opera ex nunc e non può dunque incidere sul pregresso positivo accertamento del diritto all’assegno e, di conseguenza, sul diritto dell’ex coniuge alla quota del trattamento di fine rapporto.
Per quanto concerne la questione inerente la delimitazione della fattispecie normativa di cui all’art. 12 bis l. 898/1970, con particolare riguardo alla possibilità di far rientrare tra le indennità di fine rapporto anche l’incentivo all’esodo, i giudici di legittimità muovono dalla considerazione che dalle modalità di calcolo del trattamento di fine rapporto (il riferimento è all’art. 2120 cod. civ.) si evince che il trattamento in questione costituisce un compenso ancorato allo sviluppo economico che ha avuto la carriera del lavoratore, infatti al TFR è riconosciuta la natura di retribuzione differita.
Pertanto, argomentano i giudici di legittimità che tale connotazione esclusivamente retributiva del trattamento di fine rapporto possa aver indotto il legislatore all’introduzione della disciplina di cui all’art. 12 bis: più precisamente, il coniuge che ha diritto all’assegno di divorzio matura il diritto a percepire anche una quota del TFR poiché si tratta di una retribuzione del prestatore d’opera che matura nel corso dell’esecuzione del contratto di lavoro ma che diventa esigibile soltanto alla cessazione del rapporto stesso. Pertanto, l’attribuzione patrimoniale di una quota del TFR all’ex coniuge risponde alle finalità assistenziale e perequativo-compensativa che sono alla base anche del riconoscimento dell’assegno divorzile.
Tale argomentazione trova conforto nell’elaborazione dottrinale, la quale nel corso degli anni ha evidenziato come l’istituto di cui all’art. 12 bis abbia natura assistenziale nei confronti del consorte economicamente più debole, oltre che compensativa, poiché vi è un collegamento tra la partecipazione all’indennità di fine rapporto e il contributo personale ed economico offerto da ognuno dei coniugi alla formazione del patrimonio di ciascuno e alla formazione del patrimonio di entrambi.
Un tanto trova lapidario riscontro anche in una pronuncia della Corte Costituzionale, chiamata a verificare la conformità della disposizione di cui all’art. 12 bis alla carta costituzionale: i giudici hanno rilevato che la componente compensativa dell’assegno poggia proprio sulla considerazione della particolare condizione della donna, la quale deve assumere su di sé oneri rilevanti in ordine all’assolvimento di un doppio lavoro, ossia deve svolgere compiti di natura domestica e familiare in sostituzione o in aggiunta al lavoro extradomestico, e da tale condizione deriva innegabilmente un pregiudizio rispetto alle prospettive di autonomia economica e di affermazione professionale (Corte Cost., sentenza n. 24 del 24 gennaio 1991).
Peraltro il suddetto orientamento è stato suffragato parimenti dalla giurisprudenza di legittimità, laddove i giudici della Suprema Corte hanno ribadito, nel corso degli anni, che la ratio sottesa all’art. 12 bis risieda nel “fine di attuare una partecipazione, seppure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi finché il matrimonio è durato, ovvero di realizzare la ripartizione tra i coniugi di un’entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio, così soddisfacendo esigenze (non solo di natura assistenziale, evidenziate dal richiamo alla spettanza dell’assegno di divorzio, ma) anche di natura compensativa, rapportate cioè al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune” (ex multis, Cass. Civ., Sez. I, 30 dicembre 2005, n. 28874).
Ne deriva incontrovertibilmente che le funzioni compensativa e assistenziale che fondano la ratio dell’istituto di cui all’art. 12 bis si identificano con la funzione perequativo-compensativa dell’assegno divorzile cristallizzata dalle Sezioni Unite della Suprema Corte (il riferimento è a Cass. Civ., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287), la quale risponde all’esigenza di porre rimedio a quella disparità delle condizioni economico-patrimoniali che discende dalle comuni determinazioni assunte dai coniugi nella conduzione della vita familiare.
Questo parallelismo tra la funzione dell’istituto di cui all’art. 12 bis e la ratio sottesa al diritto a vedersi corrisposto l'assegno divorzile si rinviene anche nel disegno legislativo che, assegnando la quota di indennità al coniuge non passato a nuove nozze e già titolare dell’assegno di divorzio, si basa sul presupposto che le due attribuzioni patrimoniali sono in realtà dirette al conseguimento degli stessi risultati.
Ad abundantiam, si rileva che in una situazione caratterizzata da uno squilibrio economico (che è alla base del riconoscimento del diritto all’assegno divorzile) è necessario tener conto anche della porzione reddituale scaturente dal trattamento di fine rapporto di lavoro perché quest’ultimo integra un incremento conseguito attraverso il contributo prestato dal coniuge che ha sopportato il sacrificio delle proprie aspettative economiche, in caso contrario si realizzerebbe uno sbilanciamento ingiustificato tra le posizioni patrimoniali del coniugi.
Un tanto chiarito, è necessario identificare lo spettro applicativo delle indennità annoverate all’art. 12 bis di cui l’ex coniuge ha diritto a vedersi corrisposta una percentuale.
A ben vedere, l’art. 12 bis della l. 898/1970 menziona l’indennità di fine rapporto e non il trattamento di fine rapporto e ciò rispecchia la volontà del legislatore di individuare un oggetto più ampio rispetto al solo TFR.
Da tale impostazione consegue, altresì, che non ogni misura priva di correlazione con la pregressa vita coniugale possa rientrare nello strumento di tutela previsto dall’art. 12 bis. Più precisamente, la norma in commento si applica a tutte quelle indennità che maturano alla data di cessazione del rapporto lavorativo e che sono determinate in misura proporzionale alla durata del rapporto di lavoro e all’entità della retribuzione corrisposta, qualificandosi come quota differita della retribuzione condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro stesso (ex multis si veda Cass. Civ., Sez. I, 17 dicembre 2003, n. 19309).
Più precisamente, al fine di stabilire se una determinata attribuzione in favore del lavoratore rientri o meno nell’indennità di fine rapporto di cui all’art. 12 bis, è necessario che sussista una correlazione tra l’attribuzione e l’incremento patrimoniale prodotto dal lavoro del coniuge che ha giovato del contributo indiretto dell’altro coniuge, ciò in quanto la ratio della disposizione risiede nel fine di attuare una partecipazione, seppure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi fintantoché il matrimonio è durato, ovvero di realizzare la ripartizione tra i coniugi di un'entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio, così soddisfacendo esigenze anche di natura compensativa, rapportate cioè al contributo personale ed economico dato dall'ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune (Cass. Civ., Sez. I, 30 dicembre 2015, n. 28874).
Ne deriva incontrovertibilmente che rimangono escluse dal novero dell’art. 12 bis le prestazioni private di natura previdenziale e assicurativa, l’indennità da mancato preavviso per licenziamento in tronco e l’indennità percepita a titolo di risarcimento del danno per illegittimo licenziamento poiché hanno ad oggetto il ristoro di un danno le cui conseguenze si sviluppano per il futuro.
Ma non solo. Risulta estranea alla nozione di indennità di fine rapporto racchiusa all’art. 12 bis anche l’indennità di incentivo all’esodo poiché non opera come retribuzione differita, trattandosi di un’attribuzione patrimoniale discendente da un sopravvenuto accordo con il quale viene remunerato il coniuge lavoratore per il consenso all’anticipato scioglimento del rapporto di lavoro. L’altro coniuge non ha diritto di partecipare a tale retribuzione, della quale ha già fruito sotto forma di assegno divorzile (Cass. Civ., Sez. Un., 7 marzo 2024, n. 6229)
CONCLUSIONI. Questa fondamentale pronuncia della Suprema Corte pone l’accento sulla funzione sia compensativa che assistenziale dell’istituto racchiuso all’art. 12 bis della l. 898/1970, il quale riserva al coniuge economicamente più debole, non passato a nuove nozze e già titolare dell’assegno divorzile, una quota del trattamento di fine rapporto dell’altro coniuge. Un tanto si spiega nella circostanza che il trattamento di fine rapporto è un indice del livello reddituale raggiunto dall’ex coniuge anche mediante il sacrificio dell’altro coniuge.
I giudici di legittimità, partendo dalla ratio sottesa all’istituto in commento, giungono a comporre il contrasto giurisprudenziale affermando l’esclusione dell’indennità all’esodo dal novero delle indennità per la fine del rapporto di lavoro ex art. 12 bis l. 898/1970 di cui l’ex coniuge ha diritto di beneficiare; tale esclusione trova ragion d’essere nel fatto che l’indennità di incentivo all’esodo non matura alla data di cessazione del rapporto di lavoro e non è determinata in misura proporzionale alla durata del rapporto di lavoro e all’entità della retribuzione corrisposta.