La legislazione italiana sul fine vita
Nel nostro ordinamento, a seguito del clamore mediatico suscitato dalle vicende umane e giudiziarie dei casi Welby, Englaro e dj Fabo, ci si è interrogati sull’attualità dell’indisponibilità del bene “vita”, anche a fronte di situazioni di oggettiva irreversibilità del quadro clinico.
È pacifico, infatti, come l’ordinamento riconosca il primario diritto alla vita, assurto a dogma dal quale derivano tutti gli altri diritti, ma non riconosca alcun diritto a morire. Un tanto trova riscontro nella previsione delle fattispecie incriminatrici dell’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p. e dell’istigazione al suicidio ai sensi dell’art. 580 c.p.. Più precisamente, è dalla previsione dell’omicidio del consenziente che, tradizionalmente, si ricava il supremo valore dell’indisponibilità della vita umana, posto che il consenso non scrimina la condotta omicida ma si limita a giustificare una diminuzione della pena prevista per il delitto di omicidio comune.
La questione sul fine vita intreccia etica, religione, diritto e filosofia, portando inevitabilmente con sé interrogativi e problematiche di non pronta soluzione.
Se è vero, da un lato, che l’eutanasia “attiva” (intesa come il procurare intenzionalmente la morte di un uomo la cui qualità della vita sia compromessa in modo permanente) non è ammessa, dall’altro sussiste il diritto all’autodeterminazione consapevole del trattamento sanitario.
L’art. 32 della Costituzione, infatti, dopo aver eretto – al primo comma – la tutela della salute a diritto fondamentale dell’individuo (nonché interesse della comunità), racchiude al secondo comma il principio dell’autodeterminazione terapeutica, secondo il quale “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Alla luce del disposto dell’art. 32 Cost. deve ritenersi che, al di fuori dei casi di trattamenti sanitari obbligatori, è richiesto il consenso personale, libero, attuale, concreto, informato e revocabile dell’individuo, che ha un diritto assoluto di rinunciare alle cure.
Il diritto al rifiuto del trattamento sanitario può essere esteso ai trattamenti di sostegno vitale? Le questioni sul fine vita riguardano, più precisamente, la possibilità di sospendere la nutrizione e l’idratazione artificiali per i malati cronici o terminali.
A livello internazionale alimentazione e idratazione forzata sono concepite come un trattamento medico liberamente rifiutabile dal paziente o dal suo rappresentante legale. Invero, in base alla Convenzione europea di bioetica del 1997, ratificata dal Parlamento italiano con la l. 145 del 2001, il medico, in assenza di una esplicita manifestazione di volontà del paziente, dovrà tenere conto delle precedenti manifestazioni di volontà dello stesso. Il principio è stato recepito dall’art. 34 del Codice di Deontologia Medica.
A livello nazionale, invece, è mancata a lungo una legislazione in grado di sciogliere il nodo sulla natura della nutrizione e dell’idratazione artificiali, potendosi configurare, alternativamente, quali terapia ovvero sostentamento vitale. A ben vedere, qualificare la nutrizione artificiale come una terapia consente al paziente di optarne la sospensione, ai sensi dell’art. 32, comma 2, Cost (in combinato disposto col suindicato art. 34 Cod. deont. medica), previo un ragionevole accertamento della volontà originaria del paziente stesso. Al contrario, qualificare la nutrizione artificiale quale sostentamento vitale comporta la configurazione di un’eutanasia, in quanto tale vietata, poiché la morte del paziente che ne fosse privato deriverebbe non dalle conseguenze dirette della patologia ma dall’omissione di una forma di sostegno.
Con la legge n. 219 del 2017, recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, il legislatore ha inteso disciplinare le modalità di espressione e di revoca del consenso informato, nonché la legittimazione ad esprimerlo e a riceverlo, introducendo a tal fine le DAT (disposizioni anticipate di trattamento). Attraverso le “disposizioni anticipate di trattamento”, in via di prima approssimazione, il dichiarante enuncia i propri orientamenti sul “fine vita” nell’ipotesi in cui sopravvenga una perdita irreversibile della capacità di intendere e di volere. La suddetta legge, composta di soli 8 articoli, muove dal principio secondo cui nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne nei casi espressamente previsti dalla legge.
Sulla scorta di tale evoluzione normativa, la Corte d’Assise di Milano – chiamata a pronunciarsi sulla colpevolezza di Marco Cappato per aver asseritamente agevolato (materialmente e moralmente) la morte di Fabiano Antoniani (dj Fabo) – ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., che racchiude il reato di istigazione al suicidio, nella parte in cui non contempla la capacità di autodeterminazione dell’individuo.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 242 del 2019, ha ritenuto non punibile per il reato di istigazione al suicidio ex art. 580 c.p. chi, a determinate condizioni, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile. La Consulta, invero, conclude che deve essere rispettata la suindicata l. 219/2017 e invita il legislatore a disciplinare compiutamente la materia, al fine di scongiurare che siffatte condotte possano essere ascrivibili ai reati di omicidio del consenziente e di istigazione al suicidio.
Concludendo, il consenso del paziente validamente espresso assume un ruolo centrale nella determinazione al trattamento sanitario. La presenza di un consenso libero e attuale segna il discrimine tra i casi Welby e dj Fabo rispetto alla vicenda Englaro. Tuttavia, il pregio della novella legislativa è quello di aver dato rilievo alle manifestazioni pregresse del consenso, purché racchiuse in un atto formale (“DAT”).